LA MIA VISIONE

Nel corso della mia esperienza mi sono sempre più convinto di una cosa: ciò che aiuta l’altro non sono tanto le tecniche terapeutiche quanto il terapeuta come persona. Come a dire che, al di la di quello che faccio, quel che conta è come lo faccio. Questa mia sensazione trova conferma anche in recenti ricerche (Wampold, 2005) attraverso le quali è stato dimostrato che uno dei fattori che più incide in un percorso terapeutico, al di la dei metodi utilizzati, è la relazione.

Del resto, la maggior parte dei disturbi, (fatte salve alcune categorie più strettamente correlate alla dimensione biologica), hanno origine proprio da una modalità di stare in relazione con gli altri e soprattutto con se stessi che non è più soddisfacente in base alle situazioni di vita che la persona si trova a dover fronteggiare.

La parola relazione, molto usata e spesso inflazionata, tuttavia non è di facile comprensione e spesso si pensa che stare in relazione significhi semplicemente stare di fronte a qualcun’ altro, parlarci, raccontargi, ecc, “vado dallo psicologo che mi fa parlare” è uno dei luoghi comuni più diffusi.

In realtà la relazione terapeutica è un evento di portata molto maggiore dal quale si esce trasformati, è un incontro con l’ignoto che noi rappresentiamo ai nostri stessi occhi e che non può avvenire se non attraverso l’altro. Come che solo attraverso l’altro noi possiamo conoscerci e scoprirci nelle nostre potenzialità e nella sconfinatezza che rappresenta il nostro mondo interno. E il terapeuta rappresenta il “luogo sicuro” dove tutto questo può avvenire.

Così, se devo definirmi, al di la di tutta la mia preparazione curricolare, mi piace pensarmi come un “luogo sicuro” e lavoro proprio affinchè i miei pazienti possano vivermi come “luogo sicuro”. Un luogo in cui potersi fermare per poi raccogliersi, svelarsi, scoprirsi e riprogettarsi verso una vita più soddisfacente e con orizzonti di possibilità di più ampio respiro.

Da questa prospettiva la sintomatologia clinica ovvero quello che viene chiamato “disturbo” assume senso all’interno del quadro più ampio che la persona nella sua interezza rappresenta e diviene, molto spesso, un trampolino di lancio verso nuovi modi di gestire la difficoltà nel relazionarci col mondo esterno.

Il compito dello psicoterapeuta, contrariamente ad un diffuso malinteso, non è affatto quello di «trovare» cos’è che non va nel paziente per poi poterglielo «dire». Altri glielo «avevano già detto» per tutta la sua vita e, nella misura in cui ha accettato le parole altrui, egli stesso «se lo diceva». Il lavoro dello psicoterapeuta non consiste nemmeno nell’imparare delle cose riguardo al paziente per poi insegnargliele, bensì insegnare al paziente come imparare ciò che concerne se stesso. Questo significa che il paziente deve diventare direttamente consapevole di come realmente funzioni in quanto organismo vivente; e questo avviene sulla base di esperienze concrete e non verbali” (F. Perls).